Di Pietro Romano
Le agenzie di scommesse pagavano 670 volte l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Usa, quando annunciò la sua candidatura alla nomination del Partito Repubblicano. In poco tempo il premio precipitò a quota 67 dollari per un solo biglietto verde scommesso. Poi, giorno dopo giorno, la forbice si è ridotta e la quota si è avvicinata, alla vigilia del voto, a quella della candidata democratica Hillary Clinton. Quando un giornale dalla lunga storia come il “New York Times” scriveva, invece, che l’esponente democratica - la candidata del “business as usual”, “tutto come al solito” ma anche “affari come al solito” – disponeva del 71 per cento delle intenzioni di voto.
Come mai tra agenzie di scommesse e “autorevoli opinionisti” potevano sopravvivere due visioni tanto differenti della realtà? Si poteva, si può, circoscriverlo alla ventilata vergogna degli elettori di Trump di ammettere la propria preferenza? Perfino in alcuni sondaggi segreti? Troppo facile. Questa strana dicotomia, in realtà, è stata creata da quella folta schiera di analisti-tifosi che da anni procedono e pontificano in totale contrasto con la realtà. Probabilmente ha ragione Daniele Capezzone: peggio del ceto politico a volte c’è solo la mitica società civile; e peggio della società civile c’è un suo sotto-insieme particolarmente snob: gli esperti. Ed è la consorteria degli esperti, autentico club di mandarini, a non aver compreso (per l’ennesima volta) quanto accadeva nel mondo reale, nella fattispecie gli Usa. Gli esperti guardano al candidato, non ai potenziali elettori. Come lo sciocco, guardano al dito che indica e non alla Luna che è indicata.
Questo, però, è il passato, ora interessa, piuttosto, quello che significa la presidenza Trump nel presente e soprattutto nel futuro. Per gli Stati Uniti d’America, l’Europa, soprattutto l’Italia.
La storia si ciba di rimescolamenti di carte, non dei risultati scontati. Trump come Ronald Reagan ha condotto e vinto una campagna elettorale controcorrente. A Reagan tutti noi dobbiamo molto (per essere uscito vincente, con l’aiuto di Giovanni Paolo II, dal confronto con l’Unione Sovietica) ma soprattutto devono molto gli Usa, a partire dalla nascita della Silicon Valley, tributaria alla politica e all’intervento pubblico più di quanto si creda. Se Trump sarà capace di emulare Reagan, o meno, lo vedremo. Il personaggio è a dir poco singolare. Ma è stato capace di rottamare due dinastie cementate (i Clinton e i Bush) e una in fieri (gli Obama) con buona pace di quel trombone sovra-stimato di Robert De Niro che invece dovrebbe vergognarsi di molti dei suoi film: rivedere, per credere, le incongruità di “Ti presento i miei”. Lo staff di Trump è di prim’ordine e il suo programma, a differenza di quanto asserito da chi lo commentava tra sberleffi e ghigni senz’averlo soppesato, non contiene nulla di assurdo. Perfino il muro per dividere Usa e Messico era stato ipotizzato dalla Clinton nel 2007. Del resto, anche i mitici mercati, spesso manipolati dalla comunità di “esperti” finanziari che ci impoveriscono perlomeno da dieci anni, hanno reagito sostanzialmente bene al voto.
Non è colpa di Trump, come ha sottolineato Luigi Zingales sul “Sole 24 Ore” il giorno dopo la vittoria, se il presidente uscente Barack Obama (sarà ricordato per la sua scorrettezza istituzionale, è sceso in campo come non si ricorda mai abbia fatto in precedenza un inquilino della Casa Bianca) e Hillary Clinton hanno pensato che le elezioni si potessero vincere con i soldi e le star e le starlette e non con i voti. “Trump sarà un presidente normale. Ha approfittato soprattutto delle defaillance di Obama e Clinton sul sociale. L’Europa approfitti piuttosto dell’apertura a Putin”, ha detto Nadia Urbinati, docente di politologia alla Columbia University. Già, l’Europa. L’Europa potrebbe addirittura trarre beneficio da una politica americana più isolazionista: potrebbe costituire uno stimolo a una maggiore assunzione collettiva di responsabilità, soprattutto da parte della Germania, che se vuole avere un ruolo di leader deve meritarselo rispettando le regole e investendo molto più di adesso, prima di tutto nella difesa e la sicurezza. Per quanto riguarda il protezionismo, i rischi sono tutti, o quasi, per la Cina (ammesso che Pechino non faccia pesare l’enorme quantità di debito pubblico americano posseduto). Gli scambi tra l’Europa e gli Usa rappresentano un terzo del commercio mondiale e in Europa producono centinaia di imprese a stelle e strisce, e viceversa. Salterà l’accordo di interscambio: meglio. Le compatibilità andranno verificate caso per caso e a perderci saranno gli Usa che altrimenti avrebbero fatto pesare con più facilità la loro potenza, hard e soft. Contro il terrorismo, infine, si potrebbe assistere a una convergenza tra l’azione russa, siriana, iraniana e americana (con il beneplacito di Israele, il cui governo è filo-Trump) con buona pace di Arabia Saudita, Turchia, Qatar e svariati “amici del giaguaro” , tra cui le milizie anti-Damasco, sempre più monopolio dei tagliagole dell’Isis. Un concerto destinato a ridurre le catastrofiche conseguenze dell’interventismo democratico targato Hillary Clinton (più che Obama) in Nord Africa e Medio Oriente con possibili conseguenze positive sul fenomeno in larga parte eterodiretto dell’emigrazione dal Maghreb e dall’Africa sub-sahariana che è diventata una bomba a orologeria per l’Italia.
Già, l’Italia…In politica estera il presidente Matteo Renzi ha, per l’ennesima volta, toppato schierandosi così apertamente con Hillary Clinton come nessun premier europeo. La diplomazia italiana avrà difficoltà enormi a ricucire con gli States, ma non tutto è perduto. Roma potrebbe approfittare come poche della presidenza Trump. Prima di tutto può capitalizzare il massiccio voto degli italo-americani al candidato repubblicano. Tanto che per la prima volta un prestigioso esponente della comunità, Rudolph Giuliani, potrebbe entrare con un ruolo rilevante nell’amministrazione.
La simpatia (ricambiata) di Trump per il presidente russo Vladimir Putin potrebbe restituire all’Italia, che si è distinta (onore a Renzi) per moderazione nei confronti di Mosca, il ruolo di perno nei rapporti Usa-Russia del quale il nostro Paese ha goduto ai tempi del ri-avvicinamento, quando Silvio Berlusconi organizzò lo storico vertice di Pratica di Mare.
Il Made in Italy non dovrebbe soffrire l’eventuale ventata protezionista in quanto i prodotti italiani sono di alta qualità e/o di tecnologica sofisticata, difficilmente riproducibili. Magari a questo scopo potrebbe servire - piaccia o meno - la nomina di un intermediario commerciale fuori dagli schemi, a esempio Flavio Briatore, che di Trump è amico. Da Finmeccanica a Salini, inoltre, sono numerosi i gruppi tricolore in tutti i settori produttivi che dispongono di impianti e attività negli States: sarebbero i primi ad approfittare della rinascita dell’Us Made.
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