Di Nino Cartabellotta*
I conflitti di interesse in sanità vengono generalmente identificati con i comportamenti “sconvenienti” dei singoli, rispetto al loro ruolo professionale o istituzionale. In realtà, il conflitto di interessi non è un comportamento, ma una condizione nella quale il medico si trova quando la sua indipendenza è compromessa da relazioni esistenti, oppure quando il suo giudizio professionale sulla salute del paziente viene influenzato da un interesse secondario (es. vantaggio finanziario o personale).
È bene sottolineare che gli interessi secondari non sono illegittimi in quanto tali (il guadagno economico è parte integrante dell’attività professionale): tuttavia il conflitto emerge quando questi prevalgono sui doveri etici, deontologici e legali del medico. Ecco perché è necessario assumere una prospettiva diversa, ovvero misurare l’entità del conflitto di interesse in relazione alla potenziale slealtà dell’influenza esterna, a prescindere dai comportamenti che ne possono conseguire: all’estero da tempo diverse iniziative si battono per rendere pubblici sponsorizzazioni e finanziamenti dell’industria farmaceutica in favore dei singoli medici (pagamenti per la partecipazione a convegni, onorari per la partecipazione in qualità di moderatori o relatori, assistenza al training, partecipazione a comitati, gruppi di lavoro, etc.). In questo modo ai pazienti vengono forniti strumenti per capire se e quanto le decisioni terapeutiche che li riguardano possono essere influenzate da interessi secondari del loro medico.
In Italia, la spinosa questione dei conflitti di interesse in sanità non è mai stata affrontata in maniera commisurata alle potenziali conseguenze sul SSN, la cui sostenibilità è legata anche all’integrità professionale di tutti gli attori.
Considerato lo scarso successo o impatto delle limitate iniziative nazionali, innumerevoli conflitti di interessi continuano a minare l’integrità della sanità, favorendo la diffusione di interventi sanitari inefficaci e inappropriati e alimentando comportamenti opportunistici che solo raramente assumono una rilevanza penale. Certo, come spesso accade nel nostro Paese, le carte apparentemente sono in regola: secondo il Codice di Deontologia medica, infatti, il medico « evita qualsiasi condizione di conflitto di interessi nella quale il comportamento professionale risulti subordinato a indebiti vantaggi economici o di altra natura. Il medico dichiara le condizioni di conflitto di interessi riguardanti aspetti economici e di altra natura che possono manifestarsi nella ricerca scientifica, nella formazione e nell’aggiornamento professionale, nella prescrizione diagnostico-terapeutica, nella divulgazione scientifica, nei rapporti individuali e di gruppo con industrie, enti, organizzazioni e istituzioni, o con la Pubblica amministrazione, attenendosi agli indirizzi applicativi allegati».
Tuttavia sembra finalmente spirare un vento nuovo, grazie a due fatti indipendenti che, ahimè, non provengono dal mondo professionale. Il primo è la determinazione n. 12 del 28 ottobre 2015 dell’Autorità nazionale Anticorruzione, che definisce «Il settore dei farmaci, dei dispositivi, così come l’introduzione di altre tecnologie nell’organizzazione sanitaria, nonché le attività di ricerca, di sperimentazione clinica e le correlate sponsorizzazioni, ambiti particolarmente esposti al rischio di fenomeni corruttivi e di conflitto di interessi». Il secondo è l’introduzione da parte di Farmindustria del codice etico dell’European Federation of Pharmaceutical Industries and Associations (EFPIA) che prevede che «Ogni azienda farmaceutica deve documentare e rendere pubblici ogni anno [...] i trasferimenti di valore effettuati direttamente o indirettamente con gli operatori sanitari e con le organizzazioni sanitarie. La pubblicazione dei dati dovrà avvenire su base individuale, l’eventuale pubblicazione in forma aggregata dovrà rappresentare una circostanza del tutto eccezionale».
Con ineccepibile tempismo, il 30 giugno scorso le aziende associate a Farmindustria hanno avviato la pubblicazione sui loro siti web dell’ammontare dei pagamenti effettuati nel 2015 in favore di medici e organizzazioni (aziende ospedaliere, ASL, società scientifiche, associazioni di pazienti, società di servizi, etc.), da cui emergono alcuni elementi che appannano la trasparenza dell’iniziativa. Innanzitutto, solo il 70% dei medici ha fornito il consenso alla pubblicazione dei propri dati personali accanto agli importi ricevuti: per quanto non difforme da quanto documentato in altri Paesi europei, il fatto che un terzo dei professionisti sanitari non abbia accettato la pubblicazione in forma nominale certo non può essere definita una circostanza “eccezionale”. In secondo luogo, i rendiconti presentano un taglio squisitamente amministrativo e sono pubblicati in formato pdf (spesso protetto) non permettendo di eseguire analisi e sintesi dei dati. Quindi, i rendiconti non rendono note le causali dei trasferimenti di denaro, ma si limitano a suddividerli in tre macro-categorie (senza obbligo di riportare il totale): donazioni e contributi, eventi formativi (accordi di sponsorizzazione, spese di viaggio e ospitalità), prestazioni professionali e consulenza. Last not but least, in assenza di studi ad hoc in grado di aggregare i dati forniti da ciascuna azienda, è impossibile conoscere quanto denaro ha ricevuto dall’industria farmaceutica il singolo professionista e, soprattutto, la singola organizzazione per consentire di valutare l’entità del conflitto di interessi. In particolare, questo aspetto riveste una particolare rilevanza per aziende pubbliche, centri di ricerca, società scientifiche, associazioni di pazienti e organizzazioni civiche, la cui trasparenza sui finanziamenti rappresenta un irrinunciabile elemento di accountability.
In ogni caso, onore e merito a Farmindustria che con il disclosure code ha permesso un notevole passo avanti, mettendo online i dati relativi alle transazioni economiche tra aziende farmaceutiche e singolo medico/organizzazione sanitaria perché - come ha affermato il Presidente Scaccabarozzi - se lo scopo di Farmindustria non era di fare ricerche o analisi particolari su questi dati, “oggi chi avesse voglia di farle può, mentre sino a ieri no”.
*Presidente Fondazione GIMBE